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La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 2211 del 3.4.2019 si è nuovamente pronunciata in tema di diniego di iscrizione di un operatore nell’ elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, di cui all’art. 1, comma 52, l. n. 190 del 2012 (cd. white list).
Nel caso soggetto al vaglio del Collegio, l’iscrizione alla c.d. white list era stata negata per contiguità con gli ambienti della criminalità organizzata, desunta dalla presenza, negli archivi delle forze dell’ordine, di controlli dei ricorrenti in compagnia di pregiudicati per reati di estorsione e associazioni di tipo mafioso.
Nel respingere l’appello dei ricorrenti, il Consiglio di Stato ha preliminarmente richiamato una serie di precedenti, adottati dalla medesima sezione, finalizzati a valorizzare la circostanza che “anche in relazione al diniego di iscrizione nella white list – iscrizione che presuppone la stessa accertata impermeabilità alla criminalità organizzata – è sufficiente il pericolo di infiltrazione mafiosa fondato su un numero di indizi tale da rendere logicamente attendibile la presunzione dell’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata” affermando, altresì che “il pericolo di infiltrazione mafiosa è (…) la probabilità che si verifichi l’evento.”.
Ciò chiarito, il Collegio ha ritenuto che gli atti impugnati fossero legittimi e legittimamente motivati dalla Prefettura, in considerazione dei rapporti di parentela e di frequentazione riscontrati a carico dell’operatore.
Nello specifico, il Consiglio di Stato ha ribadito che l’Amministrazione, con un giudizio connotato da ampia discrezionalità, può dare rilievo ai suddetti rapporti laddove per natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lascino ritenere che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regia familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto.
La pronuncia ha, pertanto, valorizzato la sussistenza di “circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti.”.
Dopo aver delineato la ratio della normativa antimafia e aver concluso per l’ampio margine di discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione in materia, la Terza Sezione si è, altresì, soffermata a confutare le difese degli appellanti.
Nel caso di specie, difatti, il Collegio ha precisato come non rilevasse che all’ epoca degli accertati incontri tra il destinatario della misura preventiva e il soggetto vicino alla criminalità organizzata, quest’ultimo ancora non avessero subito condanne, e ciò in quanto la data della pronuncia di condanna non cristallizza il momento in cui la persona si è avvicinata al sodalizio di stampo mafioso.
Inoltre, ha sottolineato come non rilevasse neanche che la società colpita dalla misura preventiva non avesse mai vinto una gara pubblica atteso che proprio la regolarità dell’operatività ordinaria potrebbe costituire un ulteriore schermo volto ad evitare le attenzioni delle forze di contrasto al fenomeno criminale, garantendosi al contempo una fonte di reddito “pulito” in quanto pienamente giustificato.
Infine, ha chiarito che la criminalità organizzata ormai si insinua nell’economia con plurime strategie per controllare il settore degli appalti pubblici e che non può quindi escludersi l’utilizzo di una società “pulita” per spalleggiare in sede di gara altra impresa, anch’ essa infiltrata dalla malavita organizzata.
Avv. Daniele Bracci, Studio Legale Piselli & Partners
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