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Risoluzione e recesso costituiscono due modalità di scioglimento anticipato del rapporto contrattuale. Mutuati dalla normativa civilistica, gli istituti sono spesso comunemente intesi come equivalenti.
Tuttavia, come si avrà modo di approfondire nel presente contributo, i due rimedi del recesso e della risoluzione sono ben distinti giuridicamente e all’utilizzo dell’uno o dell’altro rimedio conseguono effetti diversi.
Per quanto attiene alla risoluzione, essa è disciplinata dall’articolo 108 del Decreto Legislativo n. 50/2016 che distingue casi in cui la risoluzione da parte della stazione appaltante è facoltativa e casi in cui è obbligatoria.
Ed infatti, le fattispecie contemplate al comma 1 dell’articolo 108 (ovverosia il superamento delle soglie previste in materia di varianti o la presenza di una modifica sostanziale che avrebbe richiesto una nuova procedura di appalto ai sensi dell'articolo 106 oppure la sussistenza in capo all’appaltatore di una delle situazioni di cui all'articolo 80 o, ancora, la presenza di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati), sono precedute dalla locuzione “le stazioni appaltanti possono risolvere un contratto pubblico…”. Ne consegue che la risoluzione, in tali circostanze, è solo eventuale e, pertanto, la stazione appaltante, nel contemperamento dell’interesse pubblico alla prosecuzione del contratto, può ritenere di non procedere con il provvedimento risolutivo.
Il comma 2 individua invece due ipotesi in cui la risoluzione del contratto deve essere senz’altro disposta e non può, quindi, essere oggetto di alcuna valutazione comparativa di interessi da parte della stazione appaltante: quando siano accertate false dichiarazioni o dichiarazioni mendaci dell’appaltatore o quando all’appaltatore siano state applicate misure di prevenzione in via definitiva o lo stesso sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per i reati di cui all’art. 80 del codice dei contratti.
Il comma 3 integra una generale previsione di risoluzione ogni volta in cui il Direttore dei lavori (e, nel caso di servizi e forniture, il Direttore dell’Esecuzione del contratto) accerti un grave inadempimento dell’appaltatore, tale da compromettere la corretta esecuzione dell’opera e la buona riuscita dei lavori/servizi o forniture.
In questo caso, il direttore dei lavori (o il DEC) ne dà notizia al Responsabile del Procedimento il quale formula la contestazione degli addebiti all’esecutore assegnandogli altresì un termine per eventuali osservazioni e deduzioni. Ove il RUP dovesse valutare negativamente le controdeduzioni fornite dall’appaltatore, egli dichiara risolto il contratto.
Il successivo comma 4 regolamenta l’ipotesi in cui vi sia un ritardo nell’esecuzione delle prestazioni per negligenza dell’appaltatore. In tale evenienza, il direttore dei lavori o il RUP assegnano un termine (non inferiore a 10 giorni, salvi casi d’urgenza) entro cui l’esecutore deve procedere con le lavorazioni; decorso tale termine e a seguito di processo verbale redatto in contraddittorio con l’appaltatore, al permanere dell’inadempimento la stazione appaltante risolve il contratto.
Sul tema è bene chiarire che normalmente viene previsto contrattualmente che al raggiungimento del 10% di penali il “grave ritardo” nell’esecuzione del contratto sia comprovato e, pertanto, la Committente possa procedere con la procedura di risoluzione in danno.
Per quanto concerne gli effetti conseguenti all’avvio del procedimento risolutivo in danno all’appaltatore va anzitutto menzionato l’obbligo per la Stazione Appaltante di segnalare al Casellario ANAC, ai sensi dell’art. 80 del codice dei contratti, l’intervenuta risoluzione in danno all’appaltatore.
Tale comunicazione comporta l’avvio di un vero e proprio procedimento a carico dell’Appaltatore all’esito del quale l’ANAC potrà disporre l’annotazione del provvedimento di risoluzione nel proprio casellario informatico. La presenza dell’annotazione sarà circostanza valutabile dalle amministrazioni ai fini dell’esclusione del concorrente dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto per il termine in cui l’iscrizione permane (due anni).
A livello esecutivo, una volta che il procedimento risolutivo è stato avviato, con la comunicazione dello stesso all’appaltatore, il RUP dispone che il Direttore dei lavori rediga lo stato di consistenza dell’eseguito, con inventario di materiali, macchine e mezzi d’opera e la relativa presa in consegna.
La stazione appaltante avvia, dunque, le procedure necessarie per il completamento dei lavori, servizi o forniture, cui segue la liquidazione finale all’appaltatore che ha subito il provvedimento risolutivo. Va rammentato che, nel caso di risoluzione del contratto, l’appaltatore ha diritto soltanto al pagamento delle prestazioni relative ai lavori, servizi o forniture regolarmente eseguiti, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto.
Peraltro, nei casi di risoluzione ai sensi dei commi 2 e 3, l’onere da porre a carico dell’appaltatore è determinato anche in relazione alla maggiore spesa sostenuta per affidare ad altra impresa i lavori, servizi o forniture (ove la stazione appaltante non si sia avvalsa della facoltà prevista dall’articolo 110, comma 1, ovvero l’interpello progressivo dei soggetti partecipanti alla originaria procedura di gara).
Di conseguenza la Committente potrà compensare quanto dovuto all’appaltatore a titolo di corrispettivo per le attività eseguite oppure escutere la garanzia prevista dall’art. 103 del D. Lgs 50/16 per far fronte ai presunti danni dalla stessa lamentati a seguito della risoluzione.
Sotto un profilo pratico a seguito della risoluzione del contratto l’appaltatore deve provvedere al ripiegamento dei cantieri già allestiti e allo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze nel termine a tale fine assegnato dalla stessa stazione appaltante; in caso di mancato rispetto del termine assegnato, la stazione appaltante provvede d’ufficio addebitando all’appaltatore i relativi oneri e spese.
Non va tuttavia dimenticato che l’art. 1453 del codice civile prevede che, nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.
Pertanto la risoluzione del contratto può avvenire non solo da parte della stazione appaltante ma anche da parte dell’impresa.
Non è infrequente, infatti, l’ipotesi in cui una impresa agisca in giudizio per ottenere la declaratoria di risoluzione del contratto di appalto pubblico per grave inadempimento della P.A. che non abbia permesso la realizzazione delle opere secondo le pattuizioni contrattuali (ad esempio per errore progettuale o per indisponibilità delle aree di cantiere ecc.).
Tuttavia è bene precisare che mentre la risoluzione del contratto di appalto ad iniziativa del Committente opera automaticamente (e, pertanto, ove la stessa sia contestata dall’appaltatore lo stesso ha l’onere di impugnare giudizialmente il provvedimento davanti al tribunale ordinario) ove sia l’appaltatore ad eccepire la risoluzione in danno lo stesso dovrà agire giudizialmente al fine di far appurare la legittimità della risoluzione dichiarata unilateralmente dallo stesso.
In relazione al risarcimento del danno si evidenzia che, nell’ambito di un contratto di appalto pubblico, la giurisprudenza ha chiarito che la declaratoria giudiziale di risoluzione del contratto per inadempimento della stazione appaltante non si sottrae alla regola generale, dettata dall’art. 1458 cod. civ., della piena retroattività di tutti gli effetti della risoluzione, anche in ordine alle prestazioni già eseguite.
Ne consegue che, in linea di principio, il Committente sarebbe tenuto a restituire l’opera già eseguita dall’appaltatore (cd. restitutio in integrum) ma poiché nella pratica tale rimedio non sarebbe praticabile, la restitutio in integrum avviene attraverso la corresponsione di un equivalente pecuniario.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che “il valore dell’<opus> al momento della risoluzione può farsi coincidere con l’importo dei lavori eseguiti al momento della risoluzione calcolati al lordo del ribasso d’asta, senza applicazione, cioè del ribasso d’asta” (Trib. Reggio Calabria, 5.9.2018, n. 1300; Trib. Roma, 3.5.2018, n. 8737).
L’importo riconosciuto all’appaltatore in caso di risoluzione del contratto in danno alla committente è dunque il valore venale di mercato (senza ribasso) delle opere eseguite.
Fermo quanto sopra esposto con riferimento alla risoluzione del contratto in relazione all’istituto del recesso si rileva che lo stesso è disciplinato dall’art. 109 del codice dei contratti il quale dispone che “la stazione appaltante può recedere dal contratto in qualunque momento”.
Dalla disposizione in esame emerge che, a differenza della risoluzione, il recesso non è subordinato alla presenza di determinate circostanze che ne legittimino l’esercizio ma è un diritto attribuito alla piena disponibilità della stazione appuntente, che può decidere di recedere in qualsiasi momento, con l’unico obbligo di corrispondere all’appaltatore il pagamento dei lavori eseguiti (o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti), il valore dei materiali utili esistenti in cantiere nel caso di lavoro o in magazzino, oltre ai 4/5 (quattro quinti) del decimo dell’importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite.
Dunque, a differenza della risoluzione, il legislatore ha previsto – a favore della sola stazione appaltante - una forma di recesso ad nutum esercitabile secondo il libero apprezzamento del committente, che non è nemmeno tenuto a fornire le ragioni che lo hanno indotto a tale determinazione.
L’unico obbligo è quello di comunicare all’appaltatore, con un preavviso di 20 giorni, la volontà di recedere.
Una simile previsione garantisce all’amministrazione la possibilità di procedere allo scioglimento del contratto a fronte di una nuova o diversa valutazione circa la convenienza o l’opportunità di eseguire l’opera: i fatti alla base della decisione di recedere dal contratto possono essere i più vari e consistere non soltanto in fatti sopravvenuti (es. valutazioni sulla utilità e sulla convenienza economica dell’opera) ma anche in una diversa valutazione di una situazione precedentemente apprezzata come positiva e adesso rivalutata negativamente.
Sul punto, è stato a più riprese chiarito dalla giurisprudenza che l’istituto al quale ricorrere in ipotesi di nuova valutazione di opportunità del rapporto negoziale è appunto il recesso: “Le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006 [oggi art. 109 del d. lgs. n. 150/2016]” (Cons. Stato, Ad. Plen., 20 giugno 2014, n. 14 e, da ultimo, Cons. Stato, III sez., 28 marzo 2022, n. 2274).
Al contrario non è mai concesso all’Appaltatore di recedere dal contratto e un eventuale scioglimento unilaterale da parte dell’esecutore sarebbe senz’altro qualificato come inadempimento contrattuale dalla Stazione Appaltante, che a quel punto potrebbe legittimamente agire per la risoluzione in danno all’Appaltatore.
Pertanto, l’Appaltatore può sciogliersi dal vincolo contrattuale esclusivamente al termine dell’appalto o in ipotesi di grave inadempimento del Committente (agendo giudizialmente, come esposto, per far valere la risoluzione del contratto).
La comunicazione del recesso equivale al certificato di ultimazione dei lavori, con la conseguenza che il conto finale deve essere redatto dal Direttore dei Lavori entro il termine stabilito nel Capitolato Speciale ed il collaudo deve essere perfezionato con l’emissione del relativo certificato entro sei mesi dall’avvenuto recesso.
Al Direttore dei Lavori spetta il compito di redigere lo stato di avanzamento dei lavori eseguiti fino a quel momento ed il RUP emette il relativo certificato di pagamento.
L’amministrazione, ove ritenga che le opere provvisionali e gli impianti rimasti in cantiere siano utilizzabili e abbia dunque interesse ad acquisirne la proprietà, corrisponde all’appaltatore (oltre all’importo a titolo di indennizzo e dei lavori eseguiti) un importo parti al valore delle opere provvisionali e gli impianti non asportabili che non sia stato ammortizzato nel corso dell’appalto. Tale importo andrà determinato nella minor somma fra il costo di costruzione e il valore delle opere e degli impianti al momento dello scioglimento del contratto.
Va infine evidenziato che, tanto per il recesso quanto per la risoluzione, attesa la sostanziale derogabilità delle norme che li disciplinano, le parti -nella concreta definizione dell’assetto contrattuale - possono prevedere determinati requisiti di tempo e di forma ed assoggettare i rimedi al ricorrere di determinate condizioni.
In particolare è stata considera legittima la previsione contrattuale di un recesso “per giusta causa” da parte del Committente, previsto in ipotesi specifiche, a valle del quale venga escluso il riconoscimento del mancato utile in capo all’appaltatore (quantificato, come sopra esposto, nei 4/5 (quattro quinti) del decimo dell’importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite).
Avv. Giulio Nardelli - Studio legale Piselli & Partners
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